Vi starete chiedendo se per caso avete sbagliato blog, oppure cosa diavolo c’entri la musica rock col patchwork. Risposta: il blog è quello giusto, e la musica non c’entra niente col patchwork, però c’entra con me.
Ten Years After, dieci anni dopo. Dopo di che? Dopo la mia ultima scorreria in Val d’Argent.
Dieci anni sono passati, dieci anni di imperdonabile assenza, dieci anni durante i quali, per dirla alla Nanni Moretti, ho girato, ho visto gente, mi sono mossa, ho conosciuto, ho fatto delle cose. Ma se nel film “Ecce bombo” il personaggio di Cristina appare inconcludente e dispersivo, io in questi dieci anni sono riuscita a perdere alcune certezze per trovarne altre, e ho accumulato un bagaglio di emozioni che mi ha resa più difficile da stupire, ma più arrendevole verso ciò che non è consueto.
The proof I have had this year in Alsace.
In ten years I could not recognize anything, except of course places, as if it were the first time for me to Carrefour Européen du Patchwork. Obviously it was not, I remembered very well that there was twice more, but it was as if it had all been changed, exhibitions, styles, jobs, quando invece a essere cambiata ero unicamente io.
Walking through the exhibitions I've often stop to admire the works that would once have likened to stains Rorschach, and instead that at that moment they captivate me, They drew like the siren song, e come le sirene mi avrebbero portato alla rovina nel maldestro tentativo di emulare il guizzo artistico che le rendevano così interessanti ai miei occhi. Tutto questo nonostante io resti convinta che circolino in questo ambiente parecchie “furbastre” che spacciano dei lavori approssimativi come “arte”, ma questi inaspettati amori a prima vista mi fanno ben sperare; dalla gioia di vedere tali capolavori sorge la consapevolezza dei miei limiti, ma cresce altresì la voglia di superarli, almeno nelle intenzioni, altrimenti che c’andrei a fare alle mostre?
Appunto.
E allora come mai non sono andata in Val d’Argent per tanto tempo?
Vi dirò, non ci sarei venuta nemmeno quest’anno se in Catalogna non avessi incontrato una certa persona che mi ha convinto a visitare il Carrefour Européen du Patchwork, e a questa squisita persona (e personalità) sono grata per avermi (ri)aperto gli occhi su un universo tessile che non speravo esistesse.
Non è stato facile arrivarci, e i problemi logistici che mi avevano demotivato per anni erano quasi immutati. Esclusa per motivi ecologici l’automobile, escluso per problemi personali il viaggio organizzato, restava solamente il trasporto pubblico, mezzo tra l’altro col quale mi muovo benissimo (fuori dall’Italia). Quindi, da casa, bus, treno, bus, aereo, bus, treno, taxi, eccomi arrivata al mio alberghetto alla periferia di Colmar, dal quale poi ogni mattina, per andare alle mostre, si doveva prendere il bus, il treno e poi un altro bus, e ritorno idem.
Il premio per tutta questa sfacchinata arrivava di sera, davanti a una dose generosa di baeckeoffe e a una invitante Grimbergen (bière blanche), e lì ci si riposava le caviglie e si cercava di mettere un po’ d’ordine nella nostra testa dove era affastellato tutto quello che avevamo visto in quella giornata.
E cosa’avevamo visto in quella giornata?
Ecco, qui comincia il difficile, perché riportare e commentare in questo post tutte le opere che mi hanno colpita, vuoi per la qualità della fattura, vuoi per l’originalità della composizione, vuoi per qualche altro accidente che nemmeno io riesco a spiegarmi, sarebbe un compito superiore alle mie forze e alla vostra pazienza, because it would take me ten years to finish. Of the hundreds of photos we took, here you only find a part; the others (but not all) I'm, as always, in my album of Flickr.
Let's start with order, my course, the particular order.
There was once a small house, and in this house there were women getting to grips with the pieces of cloth. Their life was hard and had to save on everything, so nothing was thrown away. When a shirt, or a pair of slings, or a skirt, by dint of passing from generation to generation it had more holes than fabric, these women were trying to recover the recoverable and put aside the still good cloth pieces. Where lived the winter was terrible, ruthless and long, very long, così queste donne presero l’abitudine di farsi delle coperte cucendo assieme tutti quei pezzi di stoffa che avevano in casa; ne facevano una specie di sacco colorato e lo imbottivano di foglie secche raccolte in autunno. E così fu che l’inverno cominciò a fare meno paura.
Col tempo anche altre donne che vivevano nello stesso paese presero l’abitudine di riciclare le stoffe più vecchie, e qualcuna di loro, un po’ per gioco e un po’ per noia, si stufò di cucire dei semplici quadrati e cercò di realizzare qualcosa di diverso, qualcosa di personale. Capitò che una vecchia signora che aveva vissuto su al Nord si ricordasse delle enormi impronte che gli orsi lasciavano sulla neve, e così si mise a tagliare il tessuto in una forma che la riportasse con la memoria a quei luoghi; un’altra donna era sposata con un uomo che talvolta trovava consolazione nel bere, e che tornava a casa malfermo sulle gambe, perciò per ripicca riportò il suo passo incerto sulla loro coperta matrimoniale, come riprovazione e ammonimento; un’altra ancora amava le foglie del bosco, e un’altra il cielo stellato, e una era innamorata anche della sua piccola casetta di legno nel bosco. Fu così che quelle coperte, da grezze protezioni divennero elaborate creazioni, utili sì, ma anche belle.
L’inverno un giorno si accorse che non era temuto come un tempo, sbirciò attraverso le finestre e notò quelle trapunte che riscaldavano il corpo e lo spirito. Tutti quei colori stonavano colla sua visione del mondo che doveva essere bianca di sotto e grigia di sopra ma, per quanto forte soffiasse e gemesse, nulla potè contro le calde coltri, e così rimandò a tempi futuri la sua vendetta.
Il momento propizio capitò in una mattina di Marzo, quando sorprese le donne all’aperto che, approfittando dei primi tepori primaverili, stavano svuotando le loro trapunte delle foglie secche, lavavano le trapunte vuote e infine le stendevano ad asciugare all’aperto. L’inverno allora si precipitò nei cortili come una furia, prese a soffiare come mai aveva fatto prima e riuscì a strappare dai fili tutte quelle trapunte colorate. Non contento del dispetto decise che le avrebbe fatte sparire per sempre, così le sollevò in aria e le portò via. Mal gliene incolse perché ovunque quelle volassero venivano scambiate per uccelli colorati, per esseri magici, per apparizioni prodigiose e inspiegabili, e le donne, da sempre più dotate di gusto e fantasia, presero a ricopiarle un po’ a memoria un po’ a estro, realizzando a loro volta altre trapunte.
Dopo qualche tempo comprese quanto fossero inutili i suoi sforzi: invece di eliminare ciò che detestava ne aveva diffuso il seme per tutto il mondo, e quei colori ormai erano diventati invincibili; così si arrese, fece cadere il vento e con esso le antiche trapunte. Ma la stoffa di quelle, già vecchia all’origine, stanca di essere stata sbatacchiata di qua e di là si disfece nell’aria, e tutti i colori si sparsero nel verde dei Vosgi, nell’azzurro del Reno, nel giallo del muscat, nel rosso della pietra… lì dove possiamo andarli a ritrovare quando ne sentiremo la mancanza.
Finalmente qualcosa di nuovo…… qualcosa di grande (quello nero è il tappo della mia macchina fotografica)
Entriamo?Coraggio, entriamo
Comincerei con qualcosa di antico, l’antica arte di quiltare a mano, e che mano! Quello che vedere qua sotto è un dettaglio di una grande coperta matrimoniale che Jacques Légeret ha portato da oltreoceano.
Jacques Légeret è un giornalista svizzero che, assieme alla sua famiglia, ha vissuto per qualche anno presso gli Old Order Amish (i duri e puri per capirci). Questo fatto mi ricorda un vecchio film intitolato “In ricchezza e in povertà” nel quale a una coppia di “cittadini” capita di doversi adattare alle abitudini amish, con esiti abbastanza comici.
Scherzi a parte, Jacques Légeret è diventato una sorta di ambasciatore onorario di quella comunità, cercando di far svanire l’immagine stereotipata (se non addirittura macchiettistica) che si poteva avere degli amish, mediante pubblicazioni oppure, come in questo caso, esponendo i meravigliosi patchwork, antichi e moderni, realizzati da amish e mennoniti (mi correggo, mennonite).
Qualcosa del genere avevo già visto a Sitges, sempre grazie a Jacques Légeret, ma qui gli spazi consentono un’esposizione più ricca e una visione migliore. L’ambiente è in leggera penombra, perciò le opere spiccano come tanti soli, che poi sarebbero delle stelle, il che fa sorgere una riflessione.
Ormai si sarà capito che a me piacciono le contraddizioni, e i paradossi poi neanche a parlarne, e qui c’è un paradosso tanto interessante quanto disvelatore.
Guardando i patchwork amish e mennoniti non posso fare a meno di notare che il motivo della stella è predominante. Niente di strano in quanto già nella Bibbia viene citata una stella che sorge da Giacobbe (stella intesa come “re”), e il riferimento al Messia è immediato, tanto più se nell’Apocalisse si scrive di Cristo come “stella radiosa del mattino”. Allora si può ben capire come mai in queste comunità fortemente religiose sia così diffuso il motivo a stella. Il problema (se di problema possiamo parlare) è che quella stella non è veramente una stella ma è un pianeta: Venere. La contraddizione (se di contraddizione possiamo parlare) è che quella stella del mattino prima di essere Venere veniva chiamato Ištar, e poi Lucifero. Già Lucifero, colui che porta la luce, quella solare fatta di fotoni e quella del sapere fatta di mele proibite.
La parte disvelatrice di questo paradosso è suggerita dalla struttura concentrica di questi patchwork a stella, come a simboleggiare il ripetersi dei gesti, dei giorni, delle stagioni, delle generazioni, a partire da un punto centrale che dà origine al tutto (Lucifero?). Potrebbe darsi che per le donne di queste comunità il patchwork non sia solo un passatempo tradizionale, per quanto complesso e impegnativo, ma anche una (inconsapevole?) rappresentazione del loro mondo, e che tutti quei colori non siano esclusivamente il frutto di una mera scelta estetica bensì un gesto di indipendenza, forse l’unico ammesso. In fondo, già lo saprete, un pezzo di stoffa non è mai un semplice pezzo di stoffa, è un dettaglio, piccolo ma comunque importante, di un disegno molto più grande, e guarda caso, anche questo già lo saprete, il Diavolo (Lucifero?) è nei dettagli.
Sono partita dalla tradizione, e nella tradizione per il momento vorrei rimanere, mostrandovi alcune opere basate su due dei blocchi più “old style” del patchwork, come il Log Cabin per esempio…
… oppure il pinneapple, un blocco difficile non solamente per le esigenze di precisione ma anche per la difficoltà di accostare bene i contrasti e gli accordi cromatici. E c’è anche chi ama complicarsi la vita, come si può notare nel dettaglio di quest’opera di grande impatto visivo.
La scelta dei colori è fondamentale. Se nell’opera sottostante fossero stati più accesi ne sarebbe uscito un lavoro pacchiano, disturbatore. Tonalità più sfumate invece sarebbero state soppresse dal nero imperante. Invece il rosso cardinale e il verde veronese riescono a sostenere tutta la struttura cromatica, anche se il segreto estetico di questo lavoro sta in quei piccoli bottoni pervinca.
E già che parliamo di bravura, vediamoci di toglierci il pensiero con queste due quilter che hanno le mani d’oro, una vista da 20/10 e la pazienza di Giobbe.
Eccomi mentre mi sto cavando gli occhi solamente per cercare di capire come ca… come cavolo Martine Lanux è riuscita a combinare quello che ha combinato. Roba da tornare a casa e buttare la macchina da cucire in mare…
Dovrebbe farci riflettere il fatto che quest’opera è una riproduzione abbastanza fedele di un copriletto in cotone e lino eseguito nel Somerset tra il 1802 e il 1830, quindi esclusivamente a mano, e con mezzi che oggi giudicheremmo perlomeno “rudimentali”.
Anche se non si conosce il nome (o i nomi) di chi lo ha realizzato, nel pannello centrale è ricamata la scritta “Ann Randoll / October 27 1802″. Ricerche genealogiche condotte sulle documentazioni locali dell’epoca riportano attorno a quella data il decesso di Ann Randle, una bambina di poco più di due anni, perciò è invalso l’uso di aggiungere quel “In memory of…” supponendo che qualcuno della famiglia abbia deciso di realizzare qualcosa di indimenticabile per mantenere vivo il ricordo di quella bimba scomparsa prematuramente.
E ora, dopo queste grandi superfici, ecco qualcosa di più piccolo, molto più piccolo, ma non per questo meno mirabile.
Se in questi ultimi anni vi è capitato di passare per Birmingham, al Festival of Quilts, di certo non avrete potuto fare a meno di notare un assembramento sospetto dinanzi a qualcosa che non si vede, o si intravede appena. Il mistero si infittisce quando ci si avvicina di quel tanto che basta per sentire il coro di “oooh”, “aaah”, “wow” che da lì proviene. Ecco, potrete star sicure che tutte quelle persone stanno ammirando un’opera di Kumiko Frydl, e se anche voi avete atteso il vostro turno è certo che conoscete i motivi di tali esclamazioni.
Se invece non ci siete state a Birmingham, date un’occhiata ai mei post precedenti sul Festival of Quilts e capirete.
In una manifestazione d’eccellenza come quella alsaziana i lavori di Kumiko Frydl non potevano mancare, ma, insperato evento, non mancava neppure lei, e io ho avuto la fortuna di incontrarla e di scambiare quattro chiacchiere con lei. Non ci crederete: è una persona normale!
Nessuna boria, nessun potere da superwoman, nessuna scuola da imporre, solamente una grande passione, una devota applicazione e la gioia (le si leggeva nello sguardo) nel vedere quanto successo stavano riscuotendo i suoi piccoli gioielli.
Come dicevo, questo viaggio non è stato piacevole solamente per la qualità delle opere in esposizione, ma anche per l’affabilità delle artiste che lì le avevano portate.
Una di queste è Trudi Kleinstein (che dalle nostre parti sarebbe stata subito soprannominata Pierina) la quale è stata ben felice di raccontarmi qualcosa sulle sue creazioni, e quali sono le personalissime fonti di ispirazione. Nessuna elucubrazione trascendentale, niente voli pindarici, ma unicamente l’amore per la natura e per le piccole cose che ci sono sotto gli occhi ogni giorno. Mi è già capitato di affermare che un’artista scorge l’eccezionale in ciò che invece appare banale a un occhio distratto.
Così il suo giardino è diventato progetto, tavolozza e soggetto per le sue creazioni, fornendo non solamente l’ispirazione ma pure la materia prima.
Un muro in realtà è solamente un muro, ma nella fantasia dell’artista è un patchwork di mattoni e pietre, e per giunta non serve nemmeno appenderlo dato che si appende da sé. Magari non sarà stato pensato per una funzione estetica, ma ciò non lo rende meno interessante, e la sua trasposizione su stoffa è più che un gesto ispirato, è quasi un riflesso automatico.
E per finire ecco una visione autunnale, forse con una punta di rammarico personale. Fossero così tutti gli autunni, pieni di vita…
Concedetemi di aggiungere ancora un dettaglio per rendere, se possibile, ancora più apprezzabili queste opere, ovvero il fatto che tutte sono state realizzate completamente a mano, lungo tutto il processo creativo, dalla semina delle piantine fino ad ago e filo.
E visto che si parla di natura, vi presento ora dei lavori che con la natura hanno molto a che fare. Infatti niente poliestere o altri materiali non naturali per questi quilt di Smith Fraser.
Sulle prime non capivo bene come fossero quiltati questi patchwork, e anche la stoffa sembrava fin troppo morbida, anche se aveva l’aspetto di una lavorazione pregevole. E pregevole lo era di sicuro visto che dopo un po’ capii che il materiale naturale al 100% utilizzato per quelle opere era “semplicemente” legno!
Smith Fraser si è specializzato in questo tipo di sculture in legno, bassorilievi dipinti che riproducono in maniera terribilmente realistica le forme della stoffa quiltata, piegata, curled, avvolta…
Complimenti per l’originalità, l’abilità e il coraggio.
Se vi dico “Siberia” cosa vi viene in mente? La maggior parte di voi visualizzerà mentalmente una piatta e sconfinata distesa di neve, supponendo gelo e desolazione; anche lo sfruttamento minerario fa parte del nostro immaginario riguardante questa remota regione; c’è chi si ricorderà del libro/film “Educazione siberiana”, o di “The Way Back” con Colin Farrel, o magari anche di un videogioco intitolato “Syberia”. Anche una serie infinita di gulag potrebbe far parte del paesaggio siberiano che abbiamo in mente.
Invece quest’anno ho imparato che Siberia vuol dire anche patchwork, anzi di più ancora, è all’origine di espressioni di arte tessile nate ben prima che venisse inventata la parola patchwork. La regione più grande della Siberia è la Yakutia, e da lì hanno viaggiato fino in Alsazia delle opere sorprendenti per originalità e fattura, mirabilmente esposte in un’ambientazione più che suggestiva.
Questa simpatica figuretta era alta soltanto pochi centimetri. Non ho potuto fare a meno di fotografarla e riportarvela qui.
Kseniya Ivanova era lì presente, e dovevate vedere quant’era orgogliosa e felice di poter mostrare le sue creazioni, e a buon diritto.
È probabile che nulla sappiano queste donne di Modigliani, Picasso, Chagall, Matisse, Klee, ecc. , eppure questo pannello patchwork non stonerebbe in nessuna pinacoteca.
Prima di tornare a casa, già che siamo da quelle parti, potremmo fare una scappata in Afghanistan, con la guida di Deutsch-Afghanische Initiative, un’associazione no-profit di Friburgo che dal 2001 è presente in Afghanistan per aiutare la popolazione di quel martoriato paese.
Oltre a offrire l’aiuto umanitario per le prime necessità, lo scopo di questa associazione è quello di favorire l’istruzione, di migliorare la condizione femminile, e ovviamente di promuovere la cultura afgana per il mondo.
Oltre all’esposizione di alcune opere, erano disponibili delle piastrelle ricamate con i motivi tradizionali, piccole opere d’arte in grado di dare quel tocco di originalità che talvolta andiamo cercando senza successo.
Nonostante i viaggi in aereo, nonostante ciò che appare sui nostri schermi televisivi, nonostante internet, insomma nonostante che il mondo sia diventato più piccolo, pare proprio che l’Oriente e l’Africa settentrionale riescano a mantenere il loro fascino esotico, lo stesso che per secoli ha rapito la fantasia degli europei condannati a vivere nelle loro case di bambole. L’ennesima prova di questa attrazione la offre l’esposizione intitolata “La porte de l’Orient”, la porta per l’Oriente, una serie di bellissime opere a tema realizzate dal Gröbenzeller Quiltgruppe, un gruppo di appassionate del patchwork di una cittadella bavarese di meno di ventimila abitanti (e qui chi ha orecchie per intendere intenda…).
Ecco solamente qualche esempio delle loro abilità.
È già da un pel po’ che state leggendo questo post, quindi ritengo che sia il momento di fare una pausa, musicale ovviamente, a tema ovviamente.
E poi c’è chi si è fatto ispirare da quelle terre, dalle leggende che la popolano e dalla Storia che l’ha percorsa, realizzando dei caffettani da fiaba.
Mmmm… questo caffettano mi offre l’occasione di passare a un altro indumento, più moderno, una camicia per esempio, quindi cambiamo registro, veniamo ai giorni nostri, anzi alla realtà di tutti i giorni nostri e, come dicevo sopra, solamente la mente dell’artista sa pescare un meraviglioso pesce dove tutti gli altri vedono solamente alghe.
A meno che la vostra residenza non sia una remota spiaggia della Polinesia (e in questo caso cosa diavolo ci fate davanti al computer?) dovreste sapere che la stoffa è la nostra inseparabile compagna per tutta la vita (e poi si vedrà…), giorno e notte, tranne per coloro che, come Marilyn Monroe, per la notte si mettono due gocce di Chanel. A Terry piace pensare che la stoffa condivida la nostra vita, sensazioni, emozioni e, perché no, anche ricordi. E chissà quante ne avrebbe da raccontare questa camicia di suo marito…
Ma i ricordi sono spesso ingannatori, a volte ingigantiti da una memoria faziosa, a volte resi diafani dalla necessità di dimenticare per riuscire a tirare avanti, e comunque non hanno mai lo spessore dell’esperienza originaria, né come percezione e né come effetto. Ci rimangono dei fantasmi, delle suggestioni, ombre che prendono vita nella nostra testa, e che premono per uscire, rivedere la luce, e per morire nella luce, come farfalle. Forse è questo ciò che noi chiamiamo “ispirazione”, una folla di oscure muse, impalpabili, indefinite, ingombranti, che cerca la via per dare sollievo alla nostra solitudine e alla loro irrequieta coabitazione.
Farfalle? Ho citato le farfalle?
Di norma (norma? Perché dovrebbe esistere una norma?) esse vengono rappresentate come esseri variopinti, esplosioni di colore che si staccano in maniera perentoria dal piano di fondo, sia pure esso costituito da un fiore. Invece in questo caso sono quasi mimetizzate con lo sfondo, e proprio per questo ancora più evidenti, una scelta felice che vuole mettere l’accento sulla delicatezza di questo essere, come se le sue ali fossero talmente sottili da apparire trasparenti
Colgo la palla al balzo per mostrarvi cosa sono capaci di realizzare nella Corea del Sud.
Forse anche voi (come me) siete abituate all’idea di un paese tutto dedito alla fabbricazione di elettronica di consumo, dagli asciugacapelli ai telefonini, di autovetture low-cost, di elettrodomestici e di tutte quelle amenità più o meno inutili che si rompono il giorno dopo della scadenza della garanzia.
Errore.
Dalla Corea del Sud sono arrivate in Alsazia delle artiste che, per tecnica ed epressività, non hanno nulla da invidiare a quelle di qua e di là dell’oceano (il nostro e il loro).
Aspettate, fatemi pensare… dunque… finora le cose più sorprendenti provenivano da Giappone, Yakutia, Siberia, Afghanistan, Asia in genere, e adesso Corea del Sud. How to say: niente di nuovo sul fronte occidentale. Sarà così?
Proseguiamo il nostro viaggio in Corea.
E mi fermo qui per carità di patria…
Come potete vedere, non c’è bisogno di mettere dentro un lavoro tutto l’arcobaleno per riuscire a ottenere un risultato eccellente. Lo sa bene anche Barbara Lange che di questa monocromia ne ha fatto la sua chiave artistica, e sempre con ottimi risultati. Se la memoria non m’inganna ebbi la prima occasione di vedere qualcuna delle sue opere un paio d’anni fa a Praga, e ne ricevetti un’impressione di solidità espressiva fuori dal comune: un solo colore ma in tutte le sue gradazione di luce.
Barbara Lange ha continuato sulla strada delle opere monocromatiche, sempre più raffinate, e le sue ultime creazioni hanno fatto un considerevole passo in avanti, nel senso che in qualche opera il colore di base non appare immediatamente, è quasi suggerito, lasciato all’immaginazione di chi osserva, e questo rende il tutto molto più intrigante, giacché si diventa suoi complici.
Giusto un dettaglio, tanto per farvi capire fin dove può arrivare il desiderio di tentare nuove vie espressive. Vedete il quilt soprastante? Sapete quale sarebbe la luce migliore per ammirarlo come merita? Ve lo dico io: nessuna. Il titolo già ve lo dice, fireflies, lucciole, e quest’opera andrebbe osservata al buio, grazie all’utilizzo di un filo speciale che solamente nel buio brilla, appunto come le lucciole.
Fa caldo? Prendetevi un ventaglio. Fa un gran caldo? Prendetevi un gran ventaglio, sempre se avete il coraggio di usare questo di due metri. Qui Barbara Lange ha voluto giocare con le icone della comunicazione, quella antica e qulla moderna, dalla mappa del tesoro dei pirati al codice a barre, dal Braille al satellite Rosetta, e su tutte la musica, il linguaggio di comunicazione universale.
GINKO BILOBA di J. W. von GOETHE
La foglia di quest’albero, dall’oriente
affidato al mio giardino,
segreto senso fa assaporare
così come al sapiente piace fare.
E’ una sola cosa viva,
che in se stessa si è divisa?
O son due, che scelto hanno,
si conoscan come una?
In risposta a tal domanda,
trovai forse il giusto senso.
Non avverti nei miei canti
ch’io son uno e doppio insieme?
Anch’io, proprio uscendo dalla mostra, ho incontrato una piccola foglia di ginkgo. Se ne stava lì, silenziosa, in attesa che ci si accorgesse di lei, e così l’ho raccolta e portata a casa, come se fosse la mia conchiglia di San Giacomo.
Se una comune foglia può diventare un quilt da esposizione, allora anche altre semplici cose potrebbero essere di ispirazione per una pregevole opera tessile, basterebbe uno spostamento del punto di vista, un’unione insolita, un’interpretazione originale. “Redirecting the Ordinary”, questo appunto è il tema dell’esposizione curata dallo Studio Art Quilt Associates, più noto come knitter.
L’avena, la comunissima avena, è diventata per Jean Sredl una pianta ornamentale. Per sottolineare il forte legame che questa pianta ha con ciò che era d’uso talmente comune da essere considerato “plebeo”, Jean ha utilizzato come supporto l’osnaburg, una stoffa grezza di lino.
Fanno parte di questa esposizione anche i quilt di Terry Grant e Gillian Cooper che avete già visto sopra.
Nel 2012, durante un viaggio a Cuba, Jennifer Day notò una vecchia signora che, da dietro l’inferriata della sua porta di casa, stava attendendo l’arrivo dei suoi parenti. Niente di più comune: una persona anziana, una persona probabilmente sola e dei parenti che si fanno attendere. Jennifer ha visto molto altro, ha visto dietro quella donna tutto un passato, un bagaglio enorme di ricordi, la sua dignità e, perché no, anche una dose di femminile eleganza orgogliosamente esibita anche alla veneranda età di 96 anni.
Ci sono cose molto difficili da dipingere, e sono le più comuni: il cielo, the eyes, l’acqua, il vetro, perché si dipinge con la luce. Per la quilter vale lo stesso, con la differenza che ogni suo errore, anche minimo, è irreversibile, perciò complimenti a Sara Sharp per essersi lanciata, con successo, in questa avventura.
Una comune giornata invernale, una di quelle grigie nel cielo e nell’animo, una comune finestra e delle comunissime bottiglie hanno creato un’immagine suggestiva, quasi uno skyline.
Lo so che c’è chi storcerà il naso, che negherà l’appartenza dell’opera sottostante al patchwork, e tendenzialmente fino a poco tempo fa sarei stata incline a essere d’accordo. Ma, come ho scritto all’inizio di questo post, tutto cambia, tutto “deve” deve cambiare. Si chiama “evoluzione”.
Il nostro mondo non è quello dove sfinite madri di infiniti figli si mangiavano gli occhi all’incerta luce di un lume a petrolio, non è più quello delle prescritte convenzioni sociali ed estetiche, non nasce, vive e muore tra le stesse valli, le stesse abitudini, gli stessi ruoli, è diventato un mondo di contraddizioni nel quale si viaggia senza spostarsi, si mangia senza cucinare, si fatica senza sudare, si vive senza averne la sensazione. L’artista per essere tale è il primo ad avvertire il mutamento, ancora prima che inizi, quasi lo evoca e, buono o cattivo che sia il cambio di passo, si ingegna a renderlo manifesto con i pochi mezzi che ha a disposizione. Sta a noi aprire gli occhi e tendere l’orecchio per afferrare il messaggio e, poiché criptico, cercare di interpretarlo, o immaginare di farlo.
Ecco qui sotto un altro esempio di come può essere vissuta l’immagine di una moderna città. Sia che si provi angoscia o che all’opposto si avverta la vitalità e l’energia che essa esprime, è comunque fonte di contraddizione.
La notte, si sa, è fatta per dormire, riposare, ricaricarsi, ma in questa città pare che la notte sia stata bandita. Forse è un bene, la giornata, anche se artificialmente, si allunga, ci permette di fare più cose, di passare delle serate in allegria, di abbattere la dittatura del tempo, e forse è un male, ci condanna alla schiavitù del fare sempre e comunque, ci polverizza la vita in minuti e secondi senza che questi abbiano un senso, crea una frattura tra noi “esseri civili” November's “esseri umani”. The artist still not pronounced: sees, warns, records, show. Fine.
What you can see is a reproduction of the detail of a fabric aerial photography Morgan Kaolian has made flying over Bridgeport.
And then I do not come and tell me that I am showing you the trivial things…
If after all this you're still alive I want to reward them with something more pleasing, easier to digest but much more difficult to achieve: textile paintings of Birgitte Burk.
The topic of his presentation is titled “On Ice”, and she coming from Denmark suppose that the raw material for its subject not in short supply. But what are its subjects? Ice cold? The skilled skaters? anything. Birgitte was intended to represent the relationship between man and the element, and sometimes the conflict to decide which of the two is harder. Skating is not only fun and elegance, it is also hard, is pain, it is technical, detail is, and this is not only his paintings speak.
Cold as ice are these works of Monika Sebert, which always likes to experiment with new forms of expression using fabric and thread.
he does not know why, But the bastards have their charm; They have no style, they are unpredictable, unbalanced, and absolutely do not follow the conventions, yet they know how to win our hearts. In all honesty I confess that I am not insensitive to their seduction.
Val d'Argent I was really lucky because Brigitte Paumier has made an entire exposure.
I love these contaminations, cloth with the Card, cotton with wool, embroideries along with trimmings, all together in anything but, with a single limit: la fantasia.
I've got a good hour in the past’ Nicolas Church di Sainte Croix-Aux-Mines guardarmeli per tutti questi quad di Brigitte Paumier, one by one, trying different emotions, admiration in the first place, then curiosity, Envy will not speak, and finally a sense of satisfaction to tune, for the consolation of knowing that someone loves “play” con la stoffa come se fosse un pennello.
Nei paraggi c’era anche l’esposizione di Pam Rubert, una quilter di Springfield (quella dei Simpson?) che sta cercando di dare un’impronta moderna ma non criptica al patchwork, con soggetti fantasiosi e divertenti.
Di paraggi in paraggi, vedi un po’ quale sorpresa aspettava proprio me in Val d’Argent: ben tre opere di Irina Voronina! Confesso pubblicamente (comunque s’era già capito da tempo) che questa quilter russa mi fa impazzire.
Lo stile attuale di Irina Voronina è abbastanza distante da quello dei suoi primi quilt che vidi anni fa a Birmingham, eppure mi affascinano questi come mi affascinarono quelli di allora. Percorrendo una strada simile a quella di un suo illustre connazionale, Vasilij Kandinskij, she abandoned all figurative reference to focus on form, the color and the consequent emotions.
Observing carefully finally understand the message that I transmit the works of Irina Voronina, yes abstract works, but with a very concrete message, and this is: put your heart at rest, reach this level is out of your chances.
They often cite the duties of hospitality, hospitality while I do not see it as a duty but as a pleasure, especially if guests bring with them some very valuable works. Guest country of this edition is Austria, the small Austria who manages to do great things (as a national exhibition for example).
Ecco degli esempi di come un soggetto semplice, qualche volta persino elementare, se immaginato invece di essere semplicemente visto può generare un quadro che va oltre la rappresentazione estetica.
In altri casi è sufficiente una forma estremamente semplice, quando utilizzata in maniera inusuale, per generare una figura di sicuro effetto.
Da Wien ad arrivare al Lombardo-Veneto, oops, lapsus freudiano, volevo dire a Treviso, è un attimo, sì, un attimo, più di dieci ore di treno, forse ci si metteva meno tempo quando c’era la Südbahn, coi treni a vapore, ma lasciamo perdere che è meglio…, dov’ero rimasta? Ah sì, a Treviso, da dove arrivano le quilter di Patchwork Idea, ospiti quest’anno del Carrefour Européen du Patchwork. Se volete sapere qualcosa di più su questa associazione date un’occhiata a qualcuno dei miei post precedenti. Intento vediamo alcuni dei lavori che hanno portato in Alsazia.
Restiamo nei paraggi (geografici). Ora che ci penso è raro che in una mostra patchwork manchi qualche opera che abbia per soggetto Venezia, e del resto, dopo averla vista (o non vista) è difficile resistere alla tentazione di dare forma alle sensazioni che la sua unicità e in grado di far emergere (e che noi tentiamo di sommergere).
Ormai ho perso il segno (o il senno). It will be four weeks that I'm working for this post and in my head exhibits and quilts are merging to prevent me to follow a logical thread, just one wire, a trickle, during the drafting of the text and inserting images. I feel like I'm running after a very complicated quilting that takes me from one corner of a crazy patchwork.
For example, where were these two salmon?…
… Or omelet Olga González?
If you are wondering why I wrote “omelette” when in fact I should write “spiaggia”, anzi “Playa de Sa Conca”, the wonderful beach that stretches along the northern part of the Catalan coast, then you can find the answer in detail below.
Those you see are fragments of egg peel, of hundreds of eggs, a large frittata. It is not the first time that Olga González breaking eggs to make patchwork; in the post “A brutal Sunday” you can find a picture of “Trencadissa”, una sua opera al Carrefour European Patchwork del premiata 2010.
I wonder what was the reason that prompted Betty Bubsy to represent a patchwork of trilobites, beings extinct millions of years ago. Maybe she did not think their extinction but the fact that they have populated the planet for well 250 milioni di anni, and hopes that the lively patchwork equally. A hurray for optimism.
“We are really children of the stars, we are made of atoms built inside stars. We know that the universe is essentially a mixture of hydrogen and helium, with impurities of many heavier elements, including those which form our body: carbon, oxygen, nitrogen, phosphorus… We are the product of these impurities scattered from the explosion of supernovae“. This was the thought of astrophysics Margherita Hack, and I see no reason to doubt his words, except in those cases, unfortunately not rare, where pride, greed and superstition seem to show that we are children of the stables, ie mefitico litter. However we have to look to the stars, sempre, and not to search for a future predicted but to build a future, with dedication and hope, the same that in our small way we need to make a difficult patchwork. “Per aspera ad astra”.
Still try to put yourself in my shoes. I am in the same situation as those who remember that the night before did spree, He drank a little’ too much, but of those revelry, however, has confused images, not related. afterwards, when he sees the photographs that were taken by surprise during the evening, almost hard to recognize: shines the joy, l'euphoria, enjoyment, but how and when they overlap and merge. So imagine what effect can make, not a few hours of madness, but three days of drunkenness synesthetic during which each show was a wave of beauty that engulfed.
Allora, before continuing, Gift me five minutes to relax in this quiet corner.
Bene, I'm ready, we can share, and we do something challenging, with jobs that have little hope to go unnoticed. Here it needs something strong…
Ditemi, you see it? I do, but maybe it's just an illusion.
Faith and confidence, what is the difference? Perhaps it is the ability to understand what a, what is the other. This work of Elly Van Steenbeek is intense and delicate at the same time, such as trust, a bond that is formed by natural causes, evident, tangible, or it is alive and flashy like faith, sort in a totally independent of the will. More than a division into two parts I see a juxtaposition, to reflect on how much faith and trust, while it is radically different, may look similar.
If you have not read “Alice in Wonderland” you can not know what the yellow brick road, at best you can come up with an Elton John song. The yellow brick road is the one that can lead Alice in Emerald City, the capital of Oz, in the presence of the magician. And who would not know a yellow brick road that you simply follow to arrive at the solution of its problems? Unfortunately this road exists only in the land of Oz, because in our world we must costruircela us, placing every time a new brick before posarci over the foot.
Large volumes for Heide Stoll-Weber, and I used the term “volumes” instead of “surfaces” because in some cases one has the impression of looking at something that goes on behind the cloth, but that we, two-dimensional beings such as those of “Flatland” we are unable to perceive, let alone understand.
I perceive your dismay, and I understand, similar works are not easy to digest, even for me, e allora, as a reward for having survived this far, we see something no less beautiful but more “friendly”, as for example a bit’ lavender…
… or something that could be a landscape of fields, with an original frame made of vine shoots.
Guardate un po’ What you can achieve with colored batting, of beads, the skins of something, and the right dose of imagination.
The work of Catherine Tourel are a constant surprise, and she uses to create them all, bottoni, perline, pietruzze, by curtain rings, sea urchins, chopsticks, ecc., with the fabric that becomes a protagonist comprimaria. Here are some examples.
Now we come to “plat principal”, which in French would be the main dish.
It's not that far you have treated with light appetizers, from apéritif that accompany some plates of appetizers, I would rather say that I served you a number of entrée, a bit like happens in restaurants when you propose a series of small portions of the first, and then are so many that the second course becomes a nightmare. Beh, I hope when I go there now to offer it is not because, although it is hard to believe, are the works that will amaze you even more of the above.
And for dessert, if anything we see after?
“The whole is different from the sum of the individual parts”, and below you have the proof of what is still valid this statement is part of Gestalt psychology (not that I'm a psychologist, mind you…) .
From night to day, dal giorno alla notte, and then a day, butterflies of our thoughts change with changing light. Salutiamoli when they arrive, salutiamoli when they go to get confused in memory. More than a quilt is a metaphor, however well designed and even better made.
We are in France, However, nothing prevents me to travel a little’ and cross the Pyrenees, perché, as Guicciardini said: “Franza or Spain provided that if magna”. In fact you need not travel much because I just get up in Lièpvre to find the serum of the work atmosphere of Cecilia and Mercè Desedamas. The theme of their exhibition “Tastextile”, the smells and the colors of the dishes in the restaurant menu “Les Cols” di Olot. Come dicevo “… provided that if magna”.
And dulcis in fundo…
Geneviève Attinger has a pretty dark view of the status of women. Not infrequently his women are trapped behind complicated networks, or forced to share space and chaos, related to schemes and masks that misrepresent the essence and therefore deny them the absolute freedom
But every time she tries new subjects, in this case of fish, without losing anything slightly unsettling atmosphere that always hovers over his works.
Concarneu is a Breton town, whose economy has always been based on fishing, while Wesserling Alsace is home to a textile park-ecomuseo. Incidentally the UK it is the region from which it comes Geneviève Attinger. This work has been precisely designed for a contest that would ideally link the ocean with mountains.
One of the largest exhibitions were dedicated to the international competition “Reflect…” , reflection, understood as an image and / or thought depending on interpretation by the artist. I find very guessed issue as defies aesthetic label and leaves ample freedom of expression.
At this point of the post I am in trouble, Should I put them all, but it can not, and then I have before me the arduous task of making a selection. As always it will be absolutely biased and tainted by my personal taste, so I apologize in advance, but not miss an opportunity to repeat that certain things should not be viewed through a monitor but on site. Credetemi, It is another matter.
Cominciamo piano, with something light, which is not to say insignificant, anzi, exactly the opposite as there is always someone who dreams of being “other”, the myth of himself.
pure graphics to Gabrielle Paquin, a work of great effect achieved with very simple elements, and this is proof that the technique is fine, elaborate workmanship is fine, but if there is a good basic idea there is no lift from the ground crafts, although of excellent quality.
Giotto's bell tower in Florence is already entitled Beauty, and to see him so, flipped and mirrored on a puddle it has a strange effect, almost it is even more exalted elegance. Moreover Giotto gave us a lot of food for thought, and in the account are we rightly also this reflection Rossella Ceriotti.
Bene, Now we know what are the favorite shoes by Olga Gonzalez Angulo. I do not know but I'm pretty sure I agree c'andrei, given that his self-portrait shows her unconventional and informal. She reflects on life, I reflect on his skill (and I envy him, but just a little ', just a few years light, ie the distance between her and my).
Štěrbová brings the concept of reflection at its most profound meaning, to rigorous scrutiny, mai autoassolutorio, Never lacking in compassion. Shines through the Central European character, difficult for those who love the sun, impossible for those who only follows straight lines, a character that to resist intact the pressure of a thousand oppressive powers is equipped with an armor inside which cry. Jana has been definitely affected by the monument which is located in Sainte-Marie-aux-Mines in memory of the thousands of Slovenian anti-fascists deported by the Nazis in the field of Struthof. And the tears to shed there were also in the land of Štěrbová, a country which until 1918 was also that of my ancestors, since we were all subjects of the empire. War, persecution, deportations, massacres, we did not miss anything so far, yet it seems that we are not yet satisfied. “History teaches, but has no pupils.” (A. Gramsci).
This work is not made of cloth, It is made of light, what Brigitte Didier has managed to turn.
The subject (come spesso capita) it's very simple, are commonplace LED lamps floating in the water of a dark pool. Great effect, nothing to say, and would also be among my favorites were it not that reminds me a bit’ too an image already seen, precisely on LED lamps catalogs...
And here it is the reward for so much effort, my for spending a day trip in order to get to see this work of art, yours for the stubbornness (otherwise I could not define it) in wanting to continue reading this post kilometer.
Soyoung Chung loves to represent the sea, but he does it in his own way, sometimes with the repetition of a simple geometric motif, sometimes in a more free, more dramatic, trying to render visible the energy or, come in questo caso, making compromises with light, which is not that usual in the sun but the icy moonlight, the favorite of those who love life so much to not want to hand over even a bit at night.
Your posts are always a work of art and patience. Brava!
Thank you dear, congratulations for the patience and tenacity to be arrived at the bottom of this post, but the true works of art are those that are in the pictures, and also there is the hand of those who know…