Senza mani!

Eccomi qua, con un polso malandato e l’altra mano invece pure.
Per fortuna la vista mi è di grande aiuto, nel senso che già da un bel po’ dovrei andare a controllarla, ma per il momento va bene così, vedendoci meno i difetti passano inosservati.
Negare, negare sempre, anche l’evidenza. Nego a me stessa che sarebbe anche ora di smettere, di passare oltre per dedicarsi ad attività meno sfibranti del patchwork, che ne so, il poker, la speculazione in borsa, la fabbricazione di esplosivi, la roulette russa…
E invece no.
Così, un po’ per passare il tempo, un po’ per dipendenza, e un po’ per regalare qualcosa di originale, mi sono ritrovata quest’autunno a finire questi tre lavoretti che già da un bel pezzo vagavano da un cassetto all’altro.

Il primo è una specie di portatutto che intendo regalare a una futura neomamma.
Sotto al paesino ci sta una serie di tasche nelle quali infilare tutti gli ammennicoli che servono quando si ha a che fare con un neonato, l’olio idratante, la spazzola, le forbicine, un sonaglio, le salviettine, eccetera, eccetera, eccetera.
Mi piace immaginare che dopo qualche anno questo mio lavoro possa ancora conservare la sua utilità, per tenerci le matite colorate, le pantofoline, le carte da gioco, le caramelle, eccetera, eccetera, eccetera.
p1120289Andrà ancora meglio se il destinatario o la destinataria di questo pannello a un certo punto deciderà di elaborarlo a suo gusto, di personalizzarlo, colorando, aggiungendo figure, oggetti, e molta fantasia: prenderà vita.
Questo qui sotto è invece una sorta di pot-pourri tessile.
L’origine del termine “pot-pourri” è ovviamente francese, e sta a indicare uno stufato di carni miste cucinate molto a lungo.
Io, in pratica, ho utilizzato la stessa ricetta. Miste sono le tecniche, e pure le stoffe, molte di queste provenienti da recuperi insospettabili; ogni parte, ogni tecnica, ogni pezza, ha una storia a sé, una sua origine e un suo tempo, ma ho comunque cercato di cucinarle in un unico pentolone, dosando colore e forma, memoria e fantasia, sperando che ne esca qualcosa di gradevole.
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Altro discorso per questo piccolo pannello che, al pari degli altri, già da un bel po’ attendeva di trovare una sua conclusione, la quale, manco a dirlo, è inconcludente e sconclusionata.
A un primo sguardo verrebbe da pensare al tramonto, uno di quegli spettacoli che talvolta ci regala il cielo autunnale, nubi imponenti, maestose più che preoccupanti, col sole ancora capace di incendiare il mare, ma ormai non così tanto da riuscire a scaldarlo.
E invece no. (à)
Potrei intitolarlo “Autoritratto”, giacché è una rappresentazione tanto metaforica quanto ardita di me stessa.
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I contrasti dovrebbero suggerirvi qualcosa, non solo il chiaro e lo scuro, l’aria e l’acqua, il caldo e il freddo, ma anche il caos (le apparenti nuvole, i riflessi su una suggerita superficie, delle figure tormentate che potrebbero sembrare delle alghe) e l’ordine (la divisione orizzontale, il rettangolo nel rettangolo).
In realtà, o nella mia realtà immaginata, niente è casuale.
Le nuvole rispondono alle leggi (a me ignote) della termodinamica, la generazione dei riflessi sono ben descritti nella fotometria (altrettanto per me oscura), e ogni essere vivente, quindi anche le alghe, possiede una struttura organica ben definita (della quale nulla so), pur nelle sue innumerevoli varianti.
Ecco, questa io sono, una, ma non sempre quella, a volte allegra e a volte malinconica, sognatrice e pessimista, disponibile e sospettosa, affabile e pungente, socievole e riservata, dipende dalla situazione, dall’occasione, dal tempo, dal caso (eccolo il caos, nascosto nel suo anagramma…).
So che c’è il sole, la sua luce ne tradisce la presenza, ma le nuvole del mio carattere sono troppe, e troppo stratificate perché io riesca a beneficiare del suo calore. Alcuni raggi di luce riescono comunque a trovare un pertugio, quello che basta per offrire dei brillanti riflessi, comunque fugaci, instabili, cangianti, illusori.
Di sotto c’è un mare di dubbi, di delusioni, di rinunce, un abisso nel quale la luce si smorza, quasi si spegne, e quel poco che ne rimane basta appena per intravedere l’intrico di forme che si sollevano dal fondo, ma senza il desiderio, o la forza, di arrivare in superficie. Tutto sommato suppongo che, pur bramandola, esse temano la luce, l’imprevedibile, l’energia, e che se ne stiano quiete nel loro freddo mondo, mosse solamente dalle inesauribili correnti degli eventi passati.
Ci credevate che io sono così?
Non importa, ciò che conta è che oltre alla sofferenza artistica ora mi si è aggiunta anche quella fisica, quindi, com’è giusto che sia, ogni opera futura sarà per me un inferno dal quale non posso e non voglio fuggire.
Patchwork: per me si va ne l’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente.

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