Abilmente Autunno – Vicenza 2012

Mal comune mezzo gaudio? Questa volta direi proprio di no.

Infatti, arrancando a fatica nella calca, non sentivo altro che lamentele sul fatto che in fiera, in quelle condizioni di affollamento, vedere qualcosa era “Mission impossible”. La prima mezz’ora sono stata più volte tentata di girare i tacchi e tornarmene a casa.
Ho scoperto inoltre una cosa abbastanza interessante: a quanto pare sono trasparente. A tratti mi pareva di essere un salmone che risale la corrente, quella di un torrente di persone assolutamente indifferenti alla mia presenza. Eppure non mi pare di essere troppo esile. Il prossimo anno, ammesso e non concesso che ci vada, mi doterò di un giubbino catarifrangente, uno di quelli che si devono tenere in automobile, e allora chissà che, forse, riesca a schivare qualche spintone.

Forte delle esperienze passate, anche quest’anno ho adottato la strategia della Strafexpedition, quella di procedere a un’occhiata preliminare degli stand, segnando sulla mappa i punti più interessanti, gli espositori da visitare con attenzione in una fase successiva. Lo so, potrebbe sembrare poco divertente, ma vi prego di credermi che questo è l’unico sistema per riuscire a vedere tutta la fiera; se ci si comincia a fermare a ogni bancarella che attira la nostra attenzione, si arriva all’orario di chiusura che ancora mezza esposizione è rimasta terra incognita. Comunque anche così e stata dura, e solamente verso il pomeriggio inoltrato, quando la fatica aveva fatto le sue vittime e sfoltito gli stand, sono riuscita a trovare quello che cercavo, e anche di più.
Tra le tante bancarelle spiccava questo stand originalissimo in stile Old America, bello di fuori e ancor di più all’interno, pieno di cose carine realizzate a mano. Impossibile resistere.

Al mattino non c‘era verso nemmeno di entrarci per buttare lì un’occhiata, e ho dovuto aspettare quasi l’orario di chiusura per guardarmelo ben bene e scattare qualche fotografia (cliccare sulle immagini per ingrandire).

Basta lamentarsi, per adesso, perché sarebbe ora che parli un po’ di patchwork.
Intanto due buone notizie (per me).
Dopo tanto tempo sono riuscita a ritrovare le ragazze di Quiltarte che ormai davo per disperse. Sono decise più che mai a non mollare, e mi aspetto di dare notizia quanto prima delle loro future iniziative.
E poi ho anche conosciuto Sara Casol, una bravissima insegnante di quiltatura a mano. La prossima volta che capita dalle mie parti, col piffero che mi faccio sfuggire uno dei suoi corsi!

Dato che di stoffe, attrezzi, macchine, e libri sono copertissima, ho rivolto la mia attenzione alle mostre, da sempre richiamo (o esca?) per tutte le appassionate di patchwork.

Visto che si avvicina la stagione fredda, ecco un bel cappotto (crazy) patchwork. Già mi era capitato di vedere altri capi di abbigliamento realizzati con le pezze, ma questo cappotto mi ha particolarmente colpito per la sua eleganza e le combinazioni cromatiche.

(Cliccare sulle immagini per ingrandire)

Le mostre.

1 - Eccomi finalmente a quella dedicata ai lavori che hanno partecipato al concorso “Wide Horizon III“. Dopo la ressa della sezione commerciale, mi ci voleva un po’ di tranquillità e di sollievo. Mi correggo, niente sollievo, in quanto le opere esposte mi hanno dolorosamente confermato quanto io sia ancora lontanissima da quei livelli artistici.
Certo è che potendoli ammirare in Alsazia, in quella suggestiva ambientazione, dev’essere stata tutt’altra cosa di questo capannone in una zona industriale, ma bisogna sapersi accontentare, anche perché non c’è rivista patinata che regga il confronto di una visione “dal vivo”.

Come questo scorcio nel bosco, per esempio, del quale la fotografia non rende assolutamente tutte le sfumature di verde muschio presenti in questo patchwork.

Che dire di questa composizione? Sembrerebbe uno zibaldone, invece è frutto di un elaborato progetto nel quale niente è lasciato al caso, …

… un’opera che comunque dimostra la padronanza della tecnica, come si vede nel dettaglio sottostante.
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Stupenda nella sua semplicità (ma non facilità) quest’opera di Ita Ziv, …

… che da vicino dimostra l’originalità delle soluzioni adottate, con un effetto degno di un quadro impressionista.
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I paesaggi nel patchwork generalmente tendono a essere piacevoli, suggestivi, trascendenti. Margeret Ramsay invece ha voluto suggerire nella sua opera la forza delle onde di Weymouth, …

… con l’accavallarsi di queste, la loro spuma rabbiosa, e il vento che ne solleva gli spruzzi (molto probabilmente gelidi).
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Non mi sarei mai staccata dalla contemplazione di questo lavoro. Son quelle cose che non stancano, sempre fresche alla vista, ma senza voler sorprendere l’osservatore mediante facili effetti o giochi di prestigio.

Ecco un dettaglio che dimostra come talvolta il segreto della riuscita di un lavoro sta in ciò che a prima vista non appare, ma che concorre, quasi sottotraccia, a suggestionare l’osservatore.

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Questo lavoro scalda il cuore, e non solo. Starebbe benissimo in una piccola baita in montagna, stufa accesa in un angolo e polenta di grano saraceno sulla tavola, mentre fuori il vento ulula sollevando vortici di neve polverizzata, e la luna illumina la scena con un luce diafana e penetrante.

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2 - Il secondo evento espositivo denominato “Japanese Sensibility“, era dedicato al patchwork contemporaneo, ovviamente giapponese, opere dalle “Japan Handicrafts Instructors’ Association“.

Devo confessarvi che, pur ammirandone la tecnica e i motivi, non ho fatto mai pazzie per i quilt provenienti dal Sol Levante. Tutte quelle nuance di nocciola, verde, marroncino, beige, mi entusiasmavano quanto i crisantemi a Novembre.
Questa mostra mi ha inequivocabilmente dimostrato che, anche stavolta, mi sbagliavo di grosso. Pure le quilter giapponesi amano i colori accesi, vibranti, solidi, brillanti, e ne fanno un uso magistrale.
Un vero peccato però che io abbia visitato questa mostra col cuore gonfio d’ira e di tristezza.

Errare humanum est, perseverare autem diabolicum” dicevano i latini, e qui ne ho avuto la riprova.

Già nel mio resoconto sulla precedente edizione di Abilmente, avevo espresso le mie forti perplessità sul modo nel quale erano state esposte le opere del della mostra “Enchevêtrement“, i quilt selezionati al concorso indetto dal Carrefour European du Patchwork in Val d’Argent. Quei lavori stupendi risultavano penalizzati da una sistemazione, a mio parere, infelice. Per mia fortuna, qualche mese dopo, riuscii ad ammirarli come si conviene a Praga, in occasione del Prague Patchwork Meeting 2012.
Per quanto già si sappia quanto io sia talvolta incontentabile, mi verrebbe da pensare, con stupore, che allora io sia stata veramente l’unica tra le quilter presenti alla mostra a trovare insoddisfacente quella sistemazione, in quanto, in evidente assenza di critiche, gli organizzatori si sono sentiti autorizzati a ripetere quello che secondo me è un diabolico errore, se possibile con effetti ancora più disastrosi.

La collocazione, uno stretto colonnato centrale nel pieno della caotica area commerciale; l’illuminazione, assolutamente insufficiente e non dedicata a valorizzare i colori; la sistemazione, troppo vicini o troppo lontani, di taglio, di sghimbescio; la composizione, nessun accostamento cromatico e compositivo, sembravano panni stesi ad asciugare, appesi lì come capitava; la prossimità, una serie di sedie, per mangiare un panino, per bere una cosa, o semplicemente per riposare, ovviamente dando le spalle alle opere, e intralciando chi voleva vederle oppure fotografarle (le opere, non le sedie e le persone). Uno scempio, un classico lavoro acdc.

Bello questo patckwork, peccato che non si possa vederlo di fronte. E quei quattro lavori lì? Magari forse col binocolo…

 

Mentre me ne stavo lì, combattuta tra l‘entusiasmo e il rimpianto, mi è capitato di immaginare a cosa avrebbe potuto provare una quilter giapponese, la quale, dopo essersi lambiccata il cervello, mangiato gli occhi, bucherellata le dita, e speso parte della sua esistenza terrena per creare un piccolo capolavoro, capitasse a Vicenza e vedesse la sua opera appesa così, lontana, storta, inavvicinabile, tanto da rendere indistinguibili i dettagli sui quali lei si era appassionata e accanita. Chissà, forse avrebbe preso una katana per tagliare la mani al responsabile di quel vilipendio, oppure lo avrebbe indotto a infliggersi un harakiri riparatore.

Quel povero quilt là in mezzo, quasi schiacciato tra i due grandi lavori, mi fa una pena, passa quasi inosservato. E quei piccoli pannelli messi uno sopra l’altro, come se non ci fosse posto? La scelta era se osservarli da lontano oppure di taglio. Ma neanche all’asilo…

 

Io non so chi siano gli autori di tale sistemazione, né quale titoli accademici vantino (in ogni caso consiglierei loro di farsi restiture i soldi), però, avendo girato per mostre internazionali in tutta Europa, non mi è mai capitato di constatare un tale pressapochismo, tanto che per la mostra avrei trovato più pertinente il titolo “Japanese Sensibility / Insensibilità Veneta“. Evidentemente questo è ciò che ci meritiamo: un Suq.

Dev’essere stato veramente bello questo variopinto lavoro. Un vero peccato non averlo potuto ammirare come si dovrebbe.

 

Ora che mi sono sfogata, mi sento un po’ meglio, ma solamente un po’. Mi aspetterei però di sentire qualche vostra opinione nei commenti. Faccio troppo la difficile? Sono veramente l’unica quilter alla quale non è piaciuta la collocazione dei lavori giapponesi?

In attesa che ci pensiate su, ecco una carrellata di qualche patchwork giapponese. Come ho scritto sopra, mi hanno convinto tutti, a riprova, se mai ce ne fosse bisogno, di quanto ancora ci sia da scoprire, per me, nel patchwork. Li ho divisi in due categorie: i belli e gli stupendi.

Questo va chiaramente nella categoria “stupendi”. L’accostamento tra quelle tonalità di rosa e di beige non risulta stucchevole, tutt’altro, accompagna delicatamente l’esplosione cromatica centrale.

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Giapponese fino al midollo questo motivo floreale, forme semplici, pochi colori, ma composizione perfetta.

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Non so perché, ma questo grande pannello a varie tonalità di rosso mi ricorda le stoffe dei kimono.

..Grigi, chiari e scuri, con un unico punto di colore in alto. Potrebbe trattarsi di un sogno, oppure un paesaggio alieno illuminato da una luna rossa o da un sole morente, o anche una scena di un film di Kurosawa.

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Guardate quanta energia in questo lavoro, si impone alla vista. Eppure non è forzato, non ha punti dominanti; l’occhio corre instancabilmente da un punto all’altro del disegno, trovando sempre nuove prospettive.


 

Made in Japan entrambi, ma diversissimi per scelta artistica. Temerario, una difficile geometria ellittica il primo; tradizionalista, una poesia di stoffa il secondo. Quale mi piace di più? Ardua decisione…

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Eccolo qua un tipico esempio dei colori “giapponesi”. Non per niente il motivo di quest’opera era l’autunno.

 

Termino questa breve rassegna con l’immagine di un dettaglio. E’ solamente l’angolo di un grande pannello, ma dimostra quanta cura mettano le quilter giapponesi nella composizione delle loro opere, e perché mi arrabbio quanto queste non possono essere ammirate come si conviene.

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Gia che c’ero, ho fatto una capatina anche nella zona dedicata al ricamo. S’ha da dire che per fare questi lavori serve una vista eccezionale, una pazienza da Giobbe, e un’attenzione maniacale per i dettagli, oltre nauralmente all’estro artistico.

Monet è sempre fonte di ispirazione, come le sue ninfee per esempio, le quali hanno fornito il soggetto per questo piccolo capolavoro

Dettaglio
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Conoscete le fuseruole umbre? In quelle terre, durante il Medioevo, l’uomo usava donare alla propria fidanzata un fuso e una fuseruola decorata. Quest’ultima è un piccolo oggetto di forma vagamente sferica con un foro centrale, che nell’uso comune veniva applicato sul fuso per bilanciarlo e stabilizzarne la posizione durante la filatura. E’ ovvio che quella particolare fuseruola decorata, generalmente in maiolica, era destinata a uno scopo ornamentale, celebrativo, finendo col diventare un grazioso ciondolo per una collana oppure per impreziosire un mappino.

Eccole allora le fuseruole in ceramica, sulle quali non stona affatto un piccolo ma elegante ricamo

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Tiriamo un po’ di somme.

E’ stata una faticaccia. Tra andare e tornare mi sono sciroppata cinque ore di autobus; sono rimasta intruppata in una marea di gente; ho visto tutto quello che c’era da vedere, ma non posso dire di averlo visto con la dovuta calma e attenzione; i lavori in mostra erano molto belli, ma, almeno in un caso, collocati male; la zona commerciale era fornitissima, c’era pressoché tutto quello che mi serviva, ma trovarlo…
Alla sera ero contenta di esserci andata, ma nel contempo mi sentivo insoddisfatta, come se avessi assitito un bel concerto però con qualche componente dell’orchestra che steccava. Comunque io il mio dovere l’ho fatto.
Diciamo che di sabato non mi cuccano più. A costo di andarci da sola, d’ora in poi solo di giovedì o di venerdì. E se poi la parte espositiva continuerà a essere così smaccatamente penalizzata in favore di quella commerciale, non esiterò a cambiare lidi. Non esiste mica solamente Vicenza.

Milano, Bolzano, Parma sono lì che aspettano, e perché no, anche Barcelona

Vi saprò dire.

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