Mistero

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È un bel mistero. Anzi, più di uno.

Cominciamo dal più famoso: Praga.

Chi ci viene, da turista standard ovviamente, è attirato dal fascino degli antichi misteri praghesi, gli alchimisti rudolfini, il Golem di Rabbi Loew, l’estremo sacrificio di San Giovanni Nepomuceno, il ghetto ebraico con annesso cimitero, il mito di Franz Kafka, le tre giovani promesse spose della casa Rott, il cavaliere Bruncvik e il suo leone, e altro ancora.

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In effetti il mistero è come abbiano preso piede così stabilmente queste leggende, certo non così famose come quella di Libuše e del suo sposo Přemysl, ma senz’altro più redditizie.
Allora facciamo un po’ di luce.

RAIIL’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, prima di perdere il senno, fu un grandioso collezionista e un generoso mecenate.
Dürer, Bruegel il Vecchio, Veronese, Parmigianino, per non parlare dell’Arcimboldo, sono solamente alcuni degli artisti apprezzati dall’imperatore, il quale poteva vantare una pinacoteca insuperabile (e forse insuperata).
Tycho Brahe e Johannes Kepler trovarono a Praga il sostegno morale e materiale che le loro rispettive patrie avevano ottusamente negato.
Per dare lustro alla “sua” capitale, Rodolfo attirò presso la corte i più famosi gioiellieri e intagliatori di pietre dure. Per la sua corona, poi diventata corona imperiale d’Austria, vennero utilizzati 8 grandi diamanti, 186 brillantini, perle, rubini, e un grande zaffiro proveniente dal Kashmir.
Bohemia_Goblet_and_coverFu durante il regno di Rodolfo II che iniziò a Praga la lavorazione del vetro di qualità, oggi più noto come cristallo di Boemia, grazie all’inventiva di un certo Caspar Lehmann proveniente dalla Westfalia.
Certo, come ogni grande metropoli passata e presente, Praga attirava venditori di fumo, imbroglioni, sedicenti occultisti e ciarlatani d’ogni sorta, pronti a carpire la buona fede (e i denari) del credulone di turno.
Anche se costoro avevano un loro seguito presso il popolino o nel palazzo di qualche barone arricchito e incolto, a corte non trovavano mai un’accoglienza acritica, anzi il più delle volte venivano prontamente banditi dal paese (e gli andava ancora bene visto che in altre parti d’Europa per costoro era d’uso la pena capitale).
I due più famosi, John Dee e Edward Kelley, fecero entrambi una ben misera fine dopo aver cercato di spacciarsi per sapienti in contatto con gli angeli del Paradiso.
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Eppure oggi tutti i turisti che si accalcano nella Zlatá Ulička, il Vicolo d’Oro presso il castello, si immaginano l’imperatore Rodolfo II circondato da alchimisti di ogni sorta alla ricerca dell’aurum potabile, oppure affondato tra arcani testi cabbalistici o di astrologia, e così il vicolo diventa veramente d’oro grazie cospicui redditi ricavati dalla vendita di ammennicoli e souvenir che si ispirano a questa fantomatica aura di magia.
Che ve ne pare, è un mistero o è solamente business?
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Procediamo.
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Nel lontano (ma neppure tanto) 1915 usciva nelle sale cinematografiche “Il Golem”, un film ispirato alla leggenda del gigante d’argilla creato nel XVI secolo da un potente rabbino del ghetto ebraico di Praga, rabbi Loew.

In realtà (la realtà sulle origini di questa leggenda e non la realtà di un essere immaginario) già nel XII secolo, a Worms, 500km da Praga, in un trattato mistico venne ipotizzata la creazione di un Golem mediante un rituale magico. Invece in nessuna parte della ponderosa documentazione lasciata da rabbi Loew si accenna a un Golem, pertanto è da escludersi un suo collegamento con questa leggenda, neanche ipotetico.
È probabile che la storia del Golem abbia viaggiato nei secoli come fiaba orale, forse per spaventare i bambini, forse per vaticinare una protezione suprema contro un sempre possibile pogrom, fatto sta che nel 1838 un certo Klutschak, giornalista di belle speranze, pubblicò alcuni racconti suggestivi sul vecchio cimitero ebraico, sul famoso rabbi e sulla sua creatura d’argilla: il Golem (anzi, sbagliando, il Golam). Dieci anni dopo questo racconto di fantasia fu ripreso da altri autori, con maggior risonanza, fino ad arrivare alla ribalta mondiale della settima arte, diventando oggetto di credulità generale tra coloro che cedono volentieri al fascino dell’occulto.
Vorrei far notare una piccola coincidenza temporale.
Nel 1818 usciva nelle librerie “Frankestein o il Prometeo moderno”, un romanzo gotico della giovanissima Mary Shelley, ripubblicato poi nel 1831. Potrebbe darsi benissimo che Klutschak, visto il successo del best seller londinese, abbia pensato bene di dare forma scritta a quella storiella del ghetto per ricavarsi una fettina di celebrità.
Veramente un mistero da quattro soldi.
10Avanti il prossimo.
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Come comanda “Il manuale del perfetto turista a Praga”, è d’obbligo il penoso attraversamento del Ponte Carlo nell’ora di massimo affollamento. Qui, seguendo il classico andamento “stop and go” si arriva, prima o poi, davanti alla statua di San Giovanni Nepomuceno e, come da istruzioni dettagliate, si deve sfiorare con la mano sinistra la lapide per garantirsi 10 anni di fortuna. Non è specificato se i mancini naturali debbano sfiorarla con la mano destra. Nel dubbio meglio astenersi, potrebbero arrivare 10 anni di sfiga.
Va detto che il Ponte Carlo non si chiamava così ai tempi di Carlo IV (che manco lo vide finito), si chiamava il ponte di Praga o il ponte di pietra, stop. Solamente nel 1870, per opposte esigenze nazionalistiche, venne tirato in ballo il lussemburghese Carlo IV.
Le statue le hanno volute i gesuiti, quasi 300 anni dopo la costruzione, e comunque quelle che si vedono oggi sono solamente delle copie. Prima il ponte era un semplice ponte, essenziale e funzionale, nonché robusto, avendo preso a modello il ponte sulla Mosella costruito dai legionari romani 13 secoli prima (squadra che vince non si cambia).
10La leggenda narra che il povero Giovanni da Nepomuk fosse il confessore della regina. Il re, nutrendo dubbi sulla fedeltà della consorte, nel marzo del 1393 cercò di estorcere a Giovanni i segreti della di lei confessione, non esitando a ricorrere alla tortura. Non ottenendo risposte da Giovanni, il re lo fece annegare gettandolo nella Vltva (Moldava), e oggi nel fiume è visibile la lapide che indica il punto esatto dove Giovanni Nepomuceno, santificato nel 1729, fu gettato dabbasso (quale precisione storica!).
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La realtà, come sempre, è assai meno romanzata, nonché meno interessante e perciò meno spendibile.
Giovanni da Nepomuk era un fidato consigliere dell’arcivescovo di Praga, in un momento nel quale tra quest’ultimo e il re si stava svolgendo una sotterranea (ma neppure tanto) lotta di potere.
Venceslao IV, detto “il pigro”, un giorno arrivò alticcio a una riunione coll’arcivescovo e i suoi consiglieri per dirimere alcune questioni di possedimenti e pedaggi. Durante la discussione, accecato dall’ira, dalla supponenza e dall’alcol, ordinò alle guardie di arrestare gli ecclesiastici.

Il vescovo riuscì a svignarsela, ma tra le grinfie del re rimasero i suoi consiglieri, i quali vennero torturati affinché rivelassero i piani della curia.
Giovanni non sopravvisse alle torture, e il re, per timore di una reazione popolare, ordinò che il cadavere fosse gettato di notte nel fiume. Il sovrano poco sapeva di idraulica, e ignorava il fatto che il fiume tende a restituire ciò che non è adeguatamente zavorrato, perciò il corpo con ancora visibili i segni delle torture fu ripescato più a valle dopo qualche settimana.
Il re se la cavò con poco in quanto il suo rivale, l’arcivescovo, preferì rimanere nascosto in un castello ben lontano da Praga.
Quindi nessun segreto confessionale da difendere a costo della vita, fu solamente la vittima sfortunata di una lotta di potere, lo stesso tipo di potere che volle santificarlo per contrapporlo al suo celebre coevo Jan Hus, sicuramente poco amato a Roma.
Si sa che in Vaticano i misteri sono custoditi gelosamente…
10Già che siamo nei paraggi andiamo a sondare un altro mistero.
Dal ponte Carlo, passando per Staré Město, si arriva a Josefov, ovvero la zona del ghetto ebraico.
Ah, qua il mistero dovrebbe essere di casa, qua si studiavano testi millenari, la gematria, la kabbala, il Talmud di Babilonia, Qliphoth e Sephirot, e chissà cosa ancora che ci è negato di sapere.
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E invece no.
Ormai del ghetto ebraico non esiste più niente. Tutto venne raso al suolo a fine ‘800, e al posto delle vecchie abitazioni malsane e sovraffollate sorsero dei palazzi eleganti per i borghesi fin de siècle, oggi con negozi di grandi firme e ristoranti turistici al pianterreno.
Comunque già dopo la metà del XIX secolo il ghetto aveva perso gran parte delle sue caratteristiche peculiari, stretto tra i nuovi edifici popolari e dissanguato dalla perdita dei suoi componenti più facoltosi che avevano deciso di trasferirsi nei quartieri eleganti di Praga.
Unico testimone secolare, ma muto, resta il vecchio cimitero ebraico, centomila defunti in uno spazio ristrettissimo, molti dei quali sono diventati rami e foglie delle piante di sambuco che contribuiscono a una perenne penombra.
C’è una discreta fila per visitarlo, per non capire chi o cosa rappresentino le dodicimila lapidi, o perché anticamente quel posto venisse chiamato il giardino ebraico.
Per i più resta un mistero. 10
A Josefov c’è la statua di Franz Kafka, uno dei fantasmi di Praga. Girovagando per le vie della città non è raro imbattersi sulla parete esterna di qualche edificio in qualcosa di simile: “qui visse Franz Kafka… ecc.”, e non mancano i riferimenti a questo scrittore, toponomastica, museo, negozi, caffè, gadget, come se egli fosse il nume tutelare di Praga, un monumento letterario alla città.
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E invece no (ancora una volta).
Frankie non è di sicuro assimilabile alla Praga odierna, la Praga slava. Ebreo per nascita, tedesco di madrelingua, faceva parte di una minoranza di una minoranza di una minoranza, e in una città dilaniata da nazionalismi che influenzavano anche l’ambiente letterario, assieme ad altri tre amici fondò un circolo che trovava la sua ispirazione in una Praga priva degli artifizi che altri artisti immaginavano di trovarvi.
Lui vedeva più lontano, oltre le colline della città, oltre i ristretti confini dell’impero, oltre quell’epoca decorativa e ubbidiente. Non guardava ad Hradčany per i suoi castelli labirintici e inesplicabili, bensì al suo mondo senza senso e senza una via d’uscita.
Nel suo racconto più famoso “La metamorfosi”, Gregor Samsa non si trasforma d’improvviso in uno scarafaggio, anzi, la mutazione lo fa tornare penosamente umano in un mondo di insetti operosi e risoluti, un mondo kafkiano, positivista ed energico. 
Un altro mistero nel mistero è lo spostamento di significato del termine “kafkiano”.
Per il suo inventore, ovvero Franz, era il mondo di suo padre, un uomo autoritario, imponente nella figura e nella presenza, una persona di un certo successo sociale, mentre oggi, in maniera inspiegabile, travisiamo completamente il significato originale, e amiamo definire kafkiana una situazione priva di senso logico o di uno sbocco ragionevole.
Quanti misteri a Praga! 10uid_145bd0f4ed3
Ma il mistero più grande di tutti nasce, per assurdo, dalla consapevolezza.
So che la maggior parte della “magia” di Praga è costruita ad arte, che occultismo e negromanzia, se mai ci sono stati, sono svaniti come l’universo tolemaico, che delle glorie e dei tesori rudolfini sono rimaste solamente le briciole, che parte dell’architettura non è nata dall’amore per la bellezza ma come esaltazione di un potere oppressivo, che un turismo sbadato e boccalone pensa di trovarsi in un luna-park e si comporta di conseguenza, so tutto questo e anche di più.
Eppure…
Eppure non riesco a frenarmi, questa città mi affascina sempre, mi attira, mi circonda, mi abbraccia, forse come una compagna di sventure, forse come una drosera, e chi lo sa.
Mistero.
Tutta colpa del patchwork. È per causa sua che le nostre strade si sono incrociate, ben sette anni fa, e anche stavolta il patchwork è stata la scusa per tornare in Boemia. Adesso mi trovo scrivere un resoconto della mostra, e dopo sette edizioni mi sto chiedendo cosa possa ancora dire che non abbia già detto. Non saprei, è veramente un mistero.
Faccio scorrere un po’ il testo e mi accorgo che il mistero, almeno questo mistero, è già stato svelato. Quasi senza avvedermene ho già scritto decine e decine di righe. C’è poco da fare, quando si arriva a Praga, con il corpo o con la mente, sono incontenibile, parto per la tangente.
Ora non mi resterebbe che aggiungere qualche immagine della mostra e il gioco è fatto, anche per quest’anno me la sarei cavata.
E invece no (ancora? Basta!). Ci sono altri misteri sui quali far luce. 10Il primo è meramente logistico.
Dopo l’aereo e il treno, abbiamo voluto sperimentare l’autobus del gruppo Eurolines, attirati anche dal prezzo più che abbordabile.
Diciamo che la partenza alle dieci e mezza di sera da Venezia Tronchetto aveva un che di spettrale: terminale deserto, uffici tutti chiusi, solamente un adesivo su un muro a promettere che da lì “probabilmente” sarebbe passato un bus per Praga. C’era di che scoraggiarsi.
In effetti il bus arrivò, e il giorno dopo, attorno alle tredici, ci scaricò a Praha Florenc.
Tutto ok allora? Sì e no, perché le sorpresa doveva arrivare qualche giorno dopo.
Sulla prenotazione Eurolines la partenza per il viaggio di ritorno era chiaramente indicata alle 15:30, però consultando l’orario (rigorosamente in ceco) del vettore Tourbus che fa parte del gruppo, scoprii che il bus per Venezia partiva alle 15:00, come effettivamente avvenne (per la precisione alle 15:05).
Come una compagnia di trasporto passeggeri possa essere così maldestra e approssimativa è un mistero. 10
Andiamo avanti, come in un giallo, con un altro mistero.
Si sa che il patchwork non è pratica diffusissima, anche se ormai ha trovato buona accoglienza anche al di fuori dei suoi tradizionali paesi di origine e di elezione.
Questa è l’ottava edizione del Prague Patchwork Meeting, e rispetto alle primissime edizioni di passi avanti ne sono stati fatti, sia dal punto di vista artistico e sia per quanto concerne l’organizzazione.
Ma anche qui c’è un mistero.
Premessa. Ormai si sarà capito che le “strafexpedition” non fanno per me. Si va per mostre, è vero, però anche qualche diversivo non guasta. Così capita di gironzolare per la città, oppure di fare una scappata in qualche località caratteristica, giusto per trovare qualcosa di divertente da raccontare quando si torna a casa (non si può parlare solamente di patchwork…).
Anche quest’anno ho constatato, devo dire con una punta di rammarico, che il Prague Patchwork Meeting passa un po’ inosservato in città. Va bene che Praga è una città di un milione e passa di abitanti, va bene che il patchwork non fa parte della tradizione ceca, va bene che a Praga il panorama di manifestazioni artistiche è più che nutrito, però mi perplime l’assenza di locandine o informazioni simili nei negozi dedicati al tessile oppure alle arti grafiche.
È strano perché il livello raggiunto dalle quilter ceche è notevole, e le loro creazioni non sfigurerebbero accanto ad altre espressioni artistiche praghesi. La mia fantasia sfrenata mi porterebbe a immaginare alcune opere esposte nei caffè caratteristici, giusto qualche settimana prima del meeting, a mo’ di esca, anche se un sano realismo si accontenterebbe di vedere una bella locandina dietro a una vetrina.
Per crescere bisogna innovare, rischiare, chi si ferma è perduto.
È vero, lo ammetto, trovo sempre il modo di criticare, di muovere qualche osservazione, ma che ci volete fare, come disse lo scorpione alla rana dopo averla punta e prima di affogare assieme a lei: “è nella mia natura”.
Basta, prometto che da questo punto in poi la smetto con la vis polemica e torno ai miei doveri di cronista.
Come per i post precedenti, è sufficiente cliccare sull’immagine per vederla ingrandita su Flickr, dove ci sono anche altre foto non presenti in questo post.
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  Siccome da Venezia siamo partiti, mi pare ovvio iniziare con un’opera di Jana Haklová intitolata “Venice“.

Ricordo che già da lontano, ancora prima di leggere il titolo, apprezzando la composizione caotica di archi ed edifici vari, immaginai di stare osservando la città lagunare. Complimenti Jana, obbiettivo centrato in pieno.

 
Mirka Kalinová ha trovato da qualche parte della Boemia questo scorcio caratteristico da riportare su stoffa.
Under the Arch
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Se il precedente lavoro raffigura un angolo fatto di pietra e storia, con questa fettina di paesaggio autunnale Mirka Kalinová suggerisce il suo sentimento contrastante verso un ambiente naturale familiare ma non sempre idilliaco.
Waiting for Snow
mirka-kalinov-waiting-for-snow_13972091704_oDa una visione naturale a una visione virtuale.
Rata Sum è la capitale degli Asura. Quando il Grande distruttore, 250 anni fa, li costrinse ad abbandonare le loro case dalle profondità di Tyria, essi si stabilirono nelle rovine di una precedente civiltà, costruendo generatori geomistici di forza all’interno di questi confini già fortificati e fondarono la loro nuova capitale in quell’area. L’estetica di quelle rovine riflettono l’architettura moderna degli Asura. Ora Rata Sum è un capolavoro di geometria, una testimonianza del progresso inarrestabile. (Guild Wars Italia)
Calma, calma, non si tratta di afasia informatica, e nemmeno avete sbagliato blog.
romana-cern-in-the-depths-rata-sum_13948452846_oQuest’opera di Romana Cerná intitolata “In the Depths of Rata Sum” è la dimostrazione che la quilter può trovare l’ispirazione in ogni dove, magari anche sbirciando i videogiochi dei figli. Perciò, d’ora in poi, non abbiate preclusioni nella ricerca di nuovi soggetti.
 
Dal geomistico al geometrico.

Molta geometria per questo “temerario” lavoro di Nava Young intitolato “Circle of Life“. Certo è che ne ha di vita questa esplosione di colori!
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Tanto per tornare al mistero. Quest’opera di Linda Buriánová, “Paradise of Cats“, con dei disegni un po’ anni ’60, mi ricorda che a Praga i gatti sono spesso il soggetto di piccole opere d’arte più o meno raffinate, ma di gatti in carne e pelo non se ne vede nemmeno l’ombra. Mah…
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3 colori solamente per Věra Skočková, blu, rosso e bianco, i colori cechi. Anche i temi si ispirano alla cultura popolare di queste terre, sperando di non farne smarrire il ricordo. Uniche per stile e per soggetti, queste opere hanno girato il mondo, graziose ambasciatrici della tradizione ceca.
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Dalla Romania, Ecaterina Marghidan ha portato “House Pillar“. Da quel po’ di inglese che conosco, dovrebbe indicare una colonna portante della casa. Chissà perché mi ricorda un’antica veste femminile.
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Jana Štěrbová ama sempre evocare più che rappresentare, pur senza inoltrarsi nei meandri dell’astrattismo. Al tema della sua opera ci si arriva per suggestione invece che per comprensione, e questo l’avvicina  di più all’arte.

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Nuovi temi, nuovi materiali, nuove composizioni, nuovi materiali per Helena Fikejzová. Ogni tanto bisogna cambiare, uscire dal senso comune e dalla logica, è necessario un cambiamento di piano.
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La Danimarca sta piuttosto a Nord, e suppongo che il clima non sia particolarmente gradevole. Forse sarà per questo motivo che Dorte Gjelstrup cerca di visualizzare il calore attraverso il colore, sperando che riscaldi almeno lo spirito.
Hot City
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6000 quadratini da 3cm x 3cm sono occorsi all’associazione danese Freja Quilterne per realizzare questo albero della vita “Yggdrasil” che si richiama alla mitologia nordica.
La chioma dell’albero, un frassino, è sempre verde e ci vivono quattro cervi: Dain, Dvalin, Dunør e Duratro. In alto si trova un gigante in forma d’aquila, Ræsvæl, che sbattendo le ali genera i venti e provoca le tempeste. L’albero ha tre radici. Una va ad Asgår, la casa degli dei, una va a Jotunheimen, la casa dei giganti, mentre l’ultima scende nel mondo sotterraneo di Hel, e da questa nascono tutti i fiumi del mondo. Sulla cima dell’albero sta un gallo dorato che annuncerà il Ragnarok, ovvero la fine e la rinascita del mondo (un nuovo Yggdrasil).
Già che c’erano, le quilter dello Jutland hanno riportato anche delle annotazioni con le antiche rune.
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Da un albero mitologico a un albero terrestre, ma non per questo meno intriso di fantasia. Diciamo che è un albero che potremmo incontrare in sogno, un bel sogno imbastito da Pavlína Strašilová.
Tree of Flowers
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Dagli alberi, mitologici oppure onirici, alla rappresentazione della natura come figura trascendente il passo è breve. Ma quest’opera di Jindriška Katzerová, intitolata appunto “Mother Nature“, mi permette di aprire un discorso globale sul patchwork in Boemia e Moravia, una riflessione che va oltre questa mia illustrazione forzatamente parziale.
Non abbiatevene a male, ma solamente chi come me ha seguito le varie edizioni del Prague Patchwork Meeting può constatare quanto possono essere oggettivamente versatili le quilter ceche. Se avete un po’ di pazienza potreste dare un’occhiata ai post dedicati alle edizioni precedenti, e notereste, non l’assenza di uno stile personale, ma la leggerezza nell’espressione di stili diversi.
Troppe volte mi è capitato di notare come alcune famose quilter insistano attorno a uno stesso tema, un tema di successo ovviamente, una specie di impronta distintiva, che però finisce per diventare stucchevole e autoreferenziale. 
Se nelle prime edizioni del Prague Patchwork Meeting poteva esistere una qualche incertezza, un’andamento ondivago tra i motivi tradizionali e quelli più moderni, oggi si può constare che le quilter ceche hanno affermato la loro indipendenza dalle principali scuole poste di qua e di là dell’oceano Atlantico.
uid_145cc64714aJaroslava Grycová ha realizzato questo quadro impressionista facendosi ispirare dalla natura della sua terra, la Moravia.
Mother Natura”
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Quando si parla di impressionismo, in una maniera o nell’altra salta sempre fuori Monet. Tra i vari soggetti egli nutriva un particolare interesse per i ponti, forse perché sentiva di essere egli stesso un ponte gettato tra due secoli e tra due mondi espressivi. Alcuni nomi: il ponte di Waterloo, quello di Dolceacqua, il ponte di Argenteuil, e il ponte giapponese.
Proprio quest’ultimo, una costruzione apprezzata da Monet per la leggerezza della struttura, un dipinto ammirabile da noi per la leggerezza dei toni e per la sensazione di tranquillità che emana, è stato fonte di ispirazione per Jana Haklová, poliedrica e inesauribile quilter ceca.
Visit to Monet
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Dopo l’albero della vita danese, ecco gli strani alberi della saggezza della ceca Helena Prokopová. Certo è che gli alberi son molto saggi in quanto non li ho mai sentiti pronunciare qualche castroneria. Con tutto quello che gli tocca vedere, di cose ne avrebbero da dire… 
Trees of Wisdom
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Anche se non hanno foglie e fiori, sempre alberi sono questi che emergono dal mare. Come per il quilt “In the Depths of Rata Sum”, Romana Černá si è ispirata alle immagini del videogioco, indubbiamente suggestivo.
Visto il titolo, Guild Wars, sulle prime ho immaginato che si riferisse alle non infrequenti polemiche tra le varie associazioni patchwork, dissidi che dalle nostre parti sono una palla al piede in grado di frenare qualsiasi buona intenzione, come quella, per esempio, di organizzare una bella mostra nazionale invece di una miriade di piccole mostre locali.
Guild Wars
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Dal computer torniamo alla natura, per questa bella composizione floreale di Jana Lálová. Niente presunzione, nessun volo pindarico, zero effetti speciali, solamente buon gusto e ottimo senso del colore, e scusate se è poco.
Garden of Paradise
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Non boschi moravi ma fiori stavolta da Jaroslava Grycová. Lei ha trovato questo stile con i buchi come l’emmenthal. Vediamo dove la porterà.

Wave of Flowers
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Mi sono sempre piaciute molto le opere di Sandra Grusd. Con pochi semplici elementi riesce a comporre delle immagini suggestive, talvolta per mezzo del colore, talvolta, come in questo caso, dando l’impressione della tridimensionalità. Fateci caso, non c’è il sole ma l’opera è immersa nella luce. Lo steccato, così rustico e sbilenco, quasi provvisorio, come spesso capita di vederne al mare, sembra precluderci la via a una visione più vasta, tanto che verrebbe voglia di abbatterlo e scavalcarlo per arrivare alla spiaggia. E le frasche, appena accennate, quasi impalpabili ma esistenti, formano un’ulteriore barriera tra noi e l’orizzonte, un’illusione comunque irraggiungibile. Se non è arte questa…  
Horizon
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Siccome anche noi facciamo parte della natura (e troppo spesso lo scordiamo), ecco una coppia di ballerini, un’immagine assai dinamica realizzata da Lisbeth Madsen, tra l’altro con stoffe apparentemente improbabili ma che invece risultano decisive per la riuscita dell’impresa.

Ballet
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Tra le mie supposizioni strampalate vi è quella che le quilter siano, come tutti gli artisti del resto, un po’ fuori di testa, e i lavori che seguiranno confortano la mia opinione.
Di grande impatto visivo questo lavoro intitolato “Orient” di Marcela Bednářová. E se da lontano fa già la sua impressione…
p1060752_13971602815_o… visto da vicino è ancora peggio!
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Jana Lálová ci ricorda che i vocaboli come “cervicale”, “sciatica”, “tunnel carpale”, “artrosi”, sono termini che si imparano col tempo, ovvero dopo gli “anta”, e che tormentano la quilter ogniqualvolta lei passa troppo tempo sul telaio oppure alla macchina da cucire.
Meno male che si diventa sempre più giovani!

Anatomy of the Old Age
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Mădălina Vieriu ha portato una sua creazione intitolata “Falling“. Questa giovane quilter romena ha utilizzato la stoffa in maniera molto originale, increspandola, sovrapponendola, e creando una contaminazione cromatica interessante.
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Capita di vedere dei lavori realizzati con la stoffa di vecchie cravatte, magari di seta. Qui si è andato oltre, le quilter ceche hanno utilizzato le cravatte intere, etichette comprese, per comporre questo intreccio, …
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… e perché no, già che c’erano le hanno impiegate come supporto o tema per delle
originali creazioni.
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Sempre nel tema del lino, Martincová Alena ha immaginato questo inestricabile viluppo vegetale, non una giungla, nemmeno un bosco familiare, bensì qualcosa di potente, instabile, un processo in divenire, come quando si inizia a immaginare un quilt ma non si hanno ancora le idee chiare.
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Dulcis in fundo, vorrei chiudere questa serie di immagini con qualcosa che mi tocca veramente.
Da Brno, Renata Juračková porta sempre a Praga una fresca ventata di pazzia. Le sue creazioni sono qualcosa di unico, ed è un peccato che non abbia ancora trovato i canali giusti per farsi apprezzare quanto merita.
Lei rifugge le facili armonie, gli ammiccanti batik, i gradevoli accostamenti, e non teme di mettere in piazza, con le stoffe recuperate dove capita (alla vecchia maniera quindi), tutta la sua energia creativa e la brama di fuggire da un mondo troppo razionale e perciò assurdo.
renata-jurakov-1_13971568065_oIl titolo di questa sua opera è “Já si lítám, já se vznáším …” che significa “Sto volando, sto galleggiando …”, il che la dice tutta sulla sua visione della vita, e che voglio prendere, anche visivamente, come un abbraccio ideale.
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Ecco, siamo alle solite. Ogni volta mi riprometto di limitare la lunghezza dei post, e invece ogni volta va sempre peggio.
Mi chiedo cosa ancora ci potrebbe essere da dire in futuro sulla mostra di Praga. Comunque so già che che il prossimo anno ci ricascherò, mi toccherà di nuovo il difficile compito di selezionare quali immagini inserire, quindi a chi far torto, di commentarle, di ricavarne un senso generale, e di inventarmi qualcosa che non sia  già stato scritto e riscritto.
L’unica consolazione è che questo dovere verrà dopo il piacere, il piacere di visitare Praga e qualche altro posticino in Boemia, il piacere di constatare che c’è una parte di me che riesce ancora a emozionarsi, il piacere di una birra fresca, di una passeggiata sul lungofiume, il piacere di un tè di zenzero allo Slavia, il piacere di notare che esistono ancora le persone educate, il piacere di muoversi dappertutto senza la necessità dell’automobile, il piacere di scoprire che c’è chi si mette in gioco senza paura e senza boria.
Prima il piacere e dopo il dovere quindi, altrimenti non ci sto.
Un’altro piacere, un po’ sadico a onor del vero, è quello di far conoscere Praga a chi mai c’è stato prima, così, giusto un assaggio per far nascere la voglia di tornarci, una specie di supplizio di Tantalo, che poi sarebbe anche il mio, ma come si dice: mal comune mezzo gaudio. 
Chi non ha mai respirato Praga è difficile che comprenda queste “crisi di astinenza”, ci vuole una predisposizione d’animo complicata e non sempre serena, perché Praga stessa è tutta un patchwork, mille volte divisa e mille volte ricucita, sempre diversa e mai omogenea, una gestalt composta da un’infinità di aspetti contradditori, e come questi riescano a stare così meravigliosamente bene assieme è un grande mistero.
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